Su Palestina e Israele. Nulla di semplice sotto il sole.

Pubblichiamo una scheda di approfondimento sulla questione Israelo-Palestinese elaborata dal nostro candidato Luca Perrone.

L’ennesimo drammatico episodio del conflitto israelo-palestinese, mi spinge a queste riflessioni.

1. Il Sionismo, fenomeno complesso e sfaccettato, si inserisce in un contesto culturale e politico che è quello dell’imperialismo della seconda metà del XIX secolo. Non a caso nell’immaginario sionista esiste “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, collocandosi così al’interno di un’idea di “popoli senza storia” che non hanno diritti e identità specifiche, o che comunque sono implicitamente gerarchicamente inferiori. L’insediamento ebraico in Palestina cresce nella dissoluzione dell’Impero Turco (pensiamo alla guerra italo-turca del 1912) e all’occupazione inglese (Dichiarazione Balfour del 1917).  Questo al di là dei contenuti e delle spinte del sionismo, sia che lo si legga come equivalente a un movimento nazionale post-1848 (simile per intenderci al Risorgimento italiano), sia che lo si colga nella trama lunga del ritorno alla terra dei padri di una cultura religiosa come quella ebraica successiva alla Diaspora, sia che lo si legga come risposta all’esplodere di una nuova ondata di razzismo in Europa e in Russia (caso Dreyfus, pogrom). 

2. La nascita e il riconoscimento dello stato di Israele del 1948 è percepito come riparazione per lo sterminio nazista in Europa, mentre da parte ebraica diventa garanzia che una tragedia simile non si debba più ripetere. Ma è indubbio, ed è irragionevole non cogliere, che per il mondo arabo e per i palestinesi in particolare quella data rappresenti davvero una “catastrofe”, la Naqba, sia per la perdita di terre operata anche in maniera violenta prima e durante la guerra del 1948, sia perché la solidarietà del mondo arabo (guerra del 1948) rimane una promessa mai realizzata. Lo stato di Israele nasce in maniera complessa, la terra di Palestina viene acquistata e conquistata militarmente, ed è comunque un atto di forza (la vittoria militare del 1948) a sancirne il diritto di nascita. Questo ovviamente determina la convinzione da parte arabo-palestinese, che ritiene di aver subito una ingiustizia, a dover scegliere (e a dividersi) se accettare come dato di fatto quell’atto di forza o se cercare di ribaltare la realtà con un simmetrico atto di forza che cancelli il nuovo stato.

3. La Guerra dei Sei Giorni del 1967 e la conseguente occupazione della Cisgiordania e di Gaza, ha determinato un ulteriore aggravamento della situazione, rafforzato in particolare dalla scelta delle autorità israeliane non solo di mantenere l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza. La costruzione, ormai irreversibile, di innumerevoli colonie di popolamento ebraico, rendendo di fatto impossibile l’opzione di “due popoli e due stati”, proposta inizialmente dall’ONU.

4. L’Intifada del 1987 ha rappresentato una svolta nella lotta contro l’occupazione israeliana nei Territori occupati, perché ha riportato la resistenza all’interno di fatto dello stato di Israele, mentre prima era collocata al suo esterno (campi profughi in Giordania, Libano, Tunisi, ecc…). Una resistenza popolare che ha determinato l’ultima grande ondata di simpatia internazionale nei confronti della causa Palestinese.

5. Con la fine della Guerra Fredda anche la situazione in Medio Oriente è cambiata. D’altra parte l’indipendenza energetica USA, la proliferazione di forniture energetiche (Russia, Venezuela, Nigeria, Norvegia…) in conseguenza dello shock petrolifero del 1973 e l’avvio della lunga transizione ecologica verso forme di energie non fossili, hanno mutato il ruolo dello stato di Israele nel Medio Oriente, non più certo riducibile al ruolo di “cane da guardia” dell’imperialismo USA (basti pensare ai tradizionali rapporti di alleanza tra Arabia Saudita e USA). Questo determina un cambiamento di analisi rispetto alla lotta palestinese, non più inscrivibile come negli anni ’70 all’interno delle lotte antimperialiste (in questa fase era emerso il ruolo dell’OLP di Arafat e le altre organizzazioni come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina di Habash o del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina di Ḥawātmeh). La Rivoluzione iraniana del 1979 e l’emergere del radicalismo islamista risultano poco alla volta egemoniche,  finendo per prendere il sopravvento all’interno della resistenza popolare all’occupazione israeliana (ruolo di Hamas, con il golpe a Gaza del 2007), anche a causa del fallimento delle organizzazioni precedenti e delle loro proposte politiche.

6. Come conseguenza dell’Intifada e con la fine della Guerra Fredda (e il riconoscimento di Israele di alcuni paesi arabi, tra cui l’Egitto) c’è stata l’ultima occasione per la costruzione di due stati indipendenti, come conseguenza degli Accordi di Oslo del 1993. Il mutuo riconoscimento di esistenza tra OLP e Stato di Israele e la creazione dell’Autorità Palestinese avevano stabilito una base concreta per innescare un percorso di convivenza tra palestinesi e israeliani. L’opinione pubblica palestinese e israeliana, così come molte organizzazioni politiche, di fatto non hanno accettato e hanno minato sin da subito questi accordi pace. La mancata nascita dello Stato Palestinese e l’uccisione di Rabin nel 1995 da parte di Ygal Amir, un colono estremista di destra israeliano, fanno fallire questo processo di pace. L’uccisione di Rabin è il segnale che Israele è entrato in una fase di Guerra civile potenziale: la contiguità tra i coloni (armati e non disposti ad accettare di lasciare le terre occupate in Cisgiordania), le organizzazione della destra religiosa, la componente religiosa ortodossa, una parte importante dell’esercito israeliano, formano un blocco egemonico in Israele, che ha dissolto completamente le componenti favorevoli al dialogo e alla convivenza. La costruzione del Muro (certo giustificato da un punto di vista dell’efficienza nell’azzerare gli attacchi terroristici in Israele), deciso nel contesto dell’intifada di al-Aqsa del 2000, diventa il simbolo della scelta di separazione tra due mondi. Eliminato anche Arafat, secondo un percorso pianificato da anni di eliminazione dei dirigenti delle organizzazioni radicali palestinesi, in Israele prevale l’idea di costruire una società che sa convivere con la minaccia terroristica interna e degli attacchi periodici dall’esterno, in un conflitto permanente che non prevede soluzioni a breve-medio termine. Non a caso, nel momento in cui ci sono stati diversi attacchi jiadhisti in Francia, per un momento si è adombrato che anche l’Europa dovesse prepararsi a vivere in uno scenario “israeliano”, cioè in una società addestrata a convivere con la minaccia).

7. Certamente lo stato di Israele è un paese che ha una base democratica. E’ però difficile non essere preoccupati per lo stato di quella democrazia. Inesorabilmente costretto a una perenne militarizzazione della popolazione (nonostante il riuscito tentativo di costruire rapporti non conflittuali con i vicini come con l’Egitto e la Giordania), dal fallimento del processo di pace di Oslo  ha ben presente le sue contraddizioni e cerca oggi di rispondervi con soluzioni di forza.

Oggi Israele cerca a un lato di costruire rapporti diplomatici e commerciali normali con più paesi arabi possibili, al fine di disgregare il fronte filo palestinese (ad esempio gli accordi di normalizzazione dei rapporti di Israele con Emirati Arabi Uniti e Bahrain del 2020), dal’altro nega completamente l’ipotesi di convivenza di due stati indipendenti. Si va, dopo l’annessione di tutta Gerusalemme (passando per il riconoscimento di Trump di Gerusalemme come capitale unita dello Stato di Israele), verso l’annessione diretta  di parte dei Territori occupati, quelli già colonizzati. La conseguenza è l’introduzione del “modello sudafricano dei bantustan”, con Gaza e territori a macchia di leopardo in Cisgiordania sottoposti a forme di autogoverno amministrativo palestinese, con limitazioni del movimento e isolati rispetto allo stato di Israele, con anche ve di comunicazione separate tra israeliani e palestinesi, valichi di controllo, ecc…

La non annessione diretta di tutti i Territori occupati disinnesca l’altro problema della democrazia israeliana, che è quello demografico. Annettere direttamente i Territori farebbe crescere la popolazione araba (oggi circa il 25% di Israele), cosa che alla lunga potrebbe determinare il fatto, paradossale per Israele, di una minoranza ebraica e una maggioranza araba. A questo si risponde anche con la scelta da parte della componente religiosa ortodossa di avere molti figli, per equilibrare la maggiore prolificità delle famiglie palestinesi-israeliane e di quelle palestinesi.

Il carattere stesso di una democrazia a carattere etnico-religioso, rafforzato dalla decisione della Knesset, il parlamento israeliano,  il 19 luglio 2018 di approvare la «Legge fondamentale: Israele quale Stato nazionale del popolo ebraico», che sancisce Israele è lo Stato degli ebrei, rafforzando il carattere giudaico dello Stato, assolutizza e costituzionalizzata l’identità ebraica, mina l’idea di una democrazia inclusiva.

8. Il consolidarsi da un lato di forze di destra e di estrema destra in Israele e al contempo la liquidazione e liquefazione della sinistra, e dall’altro campo l’egemonizzazione nell’ambito della resistenza palestinese da parte di componenti  comunque riconducibili alla galassia jiadhista (anche se Hamas non è appiattibile a esperienze come Al Quaeda o simili e non è una organizzazione terroristica come non lo è Hamas in Libano) non può che preoccupare e non fa intravvedere al momento percorsi di liberazione e di pacificazione realisticamente praticabili in quel territorio. Condizione disperante. L’ennesimo scontro che si sta consumando in Israele Palestina, rischia semplicemente di intitolare ad Hamas la resistenza all’annessione di Gerusalemme.

9. Indubbiamente la causa palestinese è stata utilizzata dai  molti paesi arabi (ultima la Turchia di Erdogan) per coprire la situazione di miseria, diseguaglianza sociale, corruzione, in cui sono state colpevolmente lasciate per decenni quelle popolazioni, trovando un nemico esterno nello stato di Israele per coprire le proprie capacità e le proprie responsabilità.

10. Detto tutto ciò, la mia solidarietà va ai palestinesi, perché la sproporzione di forze è evidente, l’ingiustizia che subiscono da decenni nel non aver mai visto riconosciute concretamente le proprie istanze è palese, la loro condizione di vita è intollerabile, la situazione di disperazione e di isolamento in cui sono costretti sono massimi. 

Credo che la disperazione di chi in Israele coglie a fondo la drammaticità di ciò che sta succedendo, al di là della semplicistica narrazione del “diritto di difesa”, sia di uguale intensità.

Immagine Varican News

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